I disturbi del movimento farmaco-indotti (Dmfi) sono un gruppo eterogeneo di disturbi neurologici conseguenti all’utilizzo di diversi tipi di farmaci ampiamente utilizzati sia in ambito psichiatrico e neurologico (antipsicotici di prima e seconda generazione), sia per il trattamento di nausea, vomito e vertigini (metoclopramide, proclorperazina). Questi disturbi sono frequenti, spesso invalidanti e sono rappresentati da movimenti involontari quali il tremore, la discinesia, il parkinsonismo, quest’ultimo secondo in termini di frequenza solo alla malattia di Parkinson. Possono esordire a distanza di poche ore, giorni o mesi dall’introduzione o dall’incremento del dosaggio dei farmaci, che solitamente appartengono alla categoria degli antipsicotici (Drbas). Altri farmaci potenzialmente in grado di causare questi disturbi sono alcuni calcio-antagonisti utilizzati per vertigini e cefalea (flunarizina, cinnarizina), stabilizzatori dell’umore (litio e valproato), gli antidepressivi Ssri (fluoxetina, etc.), e alcuni farmaci utilizzati in ambito medico (antistaminici, antibiotici, immunosoppressori).
Sono queste le tematiche affrontate in uno studio recentemente pubblicato sulla rivista statunitense The Lancet of Neurology. Si tratta di una revisione della letteratura degli ultimi 5 anni dal titolo “Recent developments in drug-induced movement disorders: a mixed picture“, coordinata da Stewart Factor, docente dell’ Emory University School of Medicine di Altanta, uno dei massimi esperti mondiali nei Dmfi, in collaborazione con altri autori, e da Michele Tinazzi, docente di Neurologia nel dipartimento di Neuroscienze, Biomedicina e Movimento, diretto da Andrea Sbarbati, dell’università di Verona.
“La revisione – spiega Tinazzi – ha messo in evidenza come, nonostante gli antipsicotici di nuova generazione abbiano ridotto il rischio di sviluppare disturbi del movimento, essi risultano ancora comuni e molto diffusi, per il fatto che la prescrizione di questi farmaci è significativamente aumentata negli ultimi 15 anni sia negli Stati Uniti che in Europa, soprattutto nelle categorie di pazienti più vulnerabili come anziani, bambini e adolescenti. Si stima che negli Usa circa 5 milioni di pazienti siano esposti ogni anno a tali farmaci. Pertanto, dato l’alto tasso di prescrizione di farmaci antipsicotici e l’elevato rischio di sviluppare disturbi del movimento, sono necessari una migliore educazione, aggiornamento e consapevolezza tra i medici al fine di riconoscere e trattare precocemente tali disturbi con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita dei pazienti e famigliari”.
Un contributo fondamentale alla conoscenza dei meccanismi e alla gestione di questi disturbi farmaco indotti è arrivato da numerosi studi pilota e multicentrici clinici e di neuroimaging condotti in questi ultimi 10 anni dal team coordinato da Michele Tinazzi, in collaborazione con Corrado Barbui, docente di Psichiatria in ateneo. Questi studi hanno permesso di approfondire le conoscenze sulla fisiopatologia del parkinsonismo da farmaci (iatrogeno) tracciando nuovi percorsi diagnostico-terapeutici attualmente utilizzati a livello internazionale, come l’utilizzo della scintigrafia cerebrale per diagnosticare la concomitante presenza di un parkinsonismo degenerativo (nel 40% dei casi), identificare i pazienti a rischio di progressione di malattia, predire la risposta al trattamento con il farmaco Levodopa, che in questi studi è risultata essere efficace senza effetti collaterali psichiatrici.
“Uno dei messaggi chiave contenuti in questa revisione scientifica – continua Tinazzi – sta nel fatto che nella pratica clinica, ogni qualvolta visitiamo pazienti con disturbi del movimento è necessaria una anamnesi farmacologica dettagliata, in quanto tali disturbi possono essere completamente indotti da alcuni farmaci anche a dosaggi non tossici, o, in caso di malattia di Parkinson coesistente, possono peggiorare i sintomi motori talvolta confondendo la diagnosi”.
Tinazzi è il responsabile del Centro regionale specializzato per la Malattia di Parkinson e Disturbi del movimento, che opera all’interno dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria integrata di Verona e costituisce a tutt’oggi un punto di riferimento nazionale per tali patologie. Le attività di ricerca, di didattica e formazione, cliniche e assistenziale del Centro si avvalgono dell’interazione di diverse strutture e figure professionali, sia universitarie che ospedaliere. In tutti questi anni il Centro ha svolto e sviluppato tali attività, attraverso linee strategiche volte a stabilire un’intensa collaborazione scientifica nazionale e internazionale, forte interdisciplinarietà all’interno dell’ateneo e stretta interazione tra università, Azienda ospedaliera e Regione Veneto. Tutto questo ha contribuito a valorizzare quest’area neurologica come dimostrato dall’elevata produttività scientifica.