Referendum sull’autonomia del Veneto: è ormai questione di giorni, 22 ottobre. Primo bivio, andare a votare o stare a casa: molti nomi noti dell’imprenditoria regionale si sono già espressamente pronunciati (Luciano Benetton, Matteo Marzotto, Sandro Boscaini staranno a casa). Secondo bivio, voto sì o voto no: per orientarsi, sono già stati organizzati appuntamenti informativi, ne arriva ora un altro, venerdì 20 ottobre, ore 17.30 al Liston 12 di piazza Bra’; con la coordinazione di Roberto Fasoli, Graziano Azzalin (consigliere regionale del PD), Alfredo D’Attorre (parlamentare di Art. 1 MDP) e Michele Bertucco (consigliere comunale di Sinistra e Verona in Comune) illustrano le ragioni della seconda opzione, ritenendo il referendum (per cui è previsto il quorum) “inutile e costoso, proposto per scopi di propaganda e non per realizzare sul serio un federalismo differenziato“.
A monte della decisione, va, quasi lapalissianamente, ribadito che occorre approfondire, valutare con la propria testa, confrontarsi con civiltà con altre teste e poi tirar le conclusioni. Il sito della Regione Veneto ricorda che possono partecipare al referendum i cittadini iscritti nelle liste elettorali dei comuni della Regione; le operazioni di voto avranno inizio alle ore 7.00 di domenica 22 ottobre 2017 e termineranno alle ore 23.00 dello stesso giorno; l’elettore vota tracciando sulla scheda con la matita un segno sulla risposta prescelta.
Il quesito – “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”. E’ l’unico sopravvissuto ai tagli della Consulta. Nel 2014 il governatore Zaia aveva avviato la macchina referendaria, con cinque domande, soprattutto di tema fiscale; la Costituzione italiana, tuttavia, vieta referendum nazionali – e, a maggior ragione, locali – in tale materia e l’unico quesito che si leggerà il 22 sulla scheda è il suddetto, grazie (o per colpa) della sua genericità. In realtà, il Veneto, come ogni regione, può tranquillamente chiedere allo Stato più autonomie – sempre che siano tra quelle costituzionalmente definite “concorrenti”, ovvero che possano essere disciplinate da leggi sia nazionali sia regionali – e dunque un referendum appare pleonastico, se non altro per le spese che comporta (14 milioni di euro).