Pfas: cosa è successo negli ultimi cinque anni?

 
 

di Alessia Bottone

“Sono dannosi”. “No, non ci sono risposte univoche in merito alla loro tossicità”. “Ma la Ministra ha detto che i cibi non sono tossici”. “Ma il pesce lo è, eccome”. “E la bonifica non è mai partita”. “Certo che la bonifica è partita”. “Gli studi del 2013 non evidenziano una correlazione tra incidenza tumorale ed esposizione ai Pfas”.”Sì ma poi dipende se si tratta di quelli a catena corta o lunga”.

Sono queste alcune delle affermazioni estremamente confuse che si trovano in rete, analizzando i comunicati stampa della regione, consultando gli esperti del settore ma, soprattutto ascoltando coloro che hanno dovuto imparare a convivere con un’informazione non sempre puntuale. Colpa dei media? Questa volta no. I Pfas, infatti, sono sostanze fluorate impermeabilizzanti che non sono state normate e, quindi, sono ancora poco conosciute. L’unico punto di riferimento è il caso dell’azienda Dupont produttrice di Pfas e situata in Ohio che, a seguito di una class action ha dovuto risarcire gli abitanti della zona dove era stato registrato un anomalo incremento dei tumori. In Italia i Pfas sono invece prodotti dal 1968 dall’azienda Miteni di Trissino e sembrerebbero aver danneggiato lavoratori ad essi esposti e contaminato più di 60.000 persone in 21 comuni dell’area vicentina. E a pagarne le spese sono proprio loro, gli abitanti che da tempo attendono risposte, ma anche gli allevatori, ai quali è stato imposto l’acquisto a spese proprie e l’utilizzo di filtri specifici e gli agricoltori che hanno visto calare drammaticamente le vendite dei propri prodotti.

Ma partiamo dall’inizio per fare chiarezza. Di Pfas se ne inizia a parlare nel 2013, quando, in seguito al campionamento delle acque nella zona vicentina si rileva una loro alta concentrazione nelle acque dei fiumi. Il caso scoppia solo nel 2016 quando le famiglie ricevono una lettera di invito per sottoporsi alle analisi del sangue per lo screening dei Pfas previsto per gli abitanti nati tra il 1951 e il 2002. I risultati non tardano ad arrivare e sono spesso disarmanti: i livelli di Pfas, sono elevatissimi, soprattutto per i giovani e ciò comporta subito una presa di posizione delle mamme dei ragazzi contaminati che si organizzano in comitati e, assieme alle associazioni come Greenpeace e Legambiente, si adoperano per far sentire la loro voce ma soprattutto per fare luce sulla questione.

Secondo il rapporto elaborato dal Nucleo Operativo Ecologico di Treviso, “il 97% dell’inquinamento della zona è riconducibile all’impianto di Trissino che ha sversato nel collettore Arica che dopo confluiva nel Fratta Gorzone”. Questa informazione ribadita nell’audizione di Massimo Soggiu, Comandante dei Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente presso la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati è accompagnato da un altro punto fondamentale della vicenda, il ritrovamento di rifiuti interrati sull’argine del torrente Poscola, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati dei membri del consiglio di amministrazione in data 8 marzo 2017.

Soggiu ha inoltre affermato che in seguito alla perquisizione dell’azienda si è risaliti all’Erm, una società di studi ambientali che dal 1990 al 2009 si è occupata di effettuare periodici studi ambientali per conto della Miteni ed è emerso che “già dal 2004 la Miteni aveva gli elementi per poter fare qualcosa in base al loro sito che era inquinato”. Ma la ricostruzione della vicenda assume dei tratti oscuri per ciò che concerne il 2009, l’anno in cui la Miteni, ex RIMAR, cambia proprietà e, da Mitsubishi passa a ICIG, società chimica multinazionale, con sede in Lussemburgo, grazie a una compravendita che si conclude al costo di 1,00 Euro.

“Per ciò che concerne l’interramento delle scorie si presume che ciò sia avvenuto negli anni ’70”, dichiara nella stessa audizione Manuel Tagliaferri, addetto al NOE di Treviso. “Ciò che è certo è che i lavoratori della Miteni hanno valori di Pfoa a livelli stellari e si presume che non abbiano lavorato in condizioni di sicurezza”. Sempre Tagliaferri durante l’audizione aggiunge:”Il professor Giovanni Costa, medico responsabile della sorveglianza sanitaria dei lavoratori della Miteni ha fatto fare le analisi del sangue ai lavoratori addetti agli impianti più critici, dal 2000 in poi. Tutti questi dati sono stati puntualmente trasmessi tutti gli anni da Miteni al Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza Ambienti di Lavoro – SPISAL, competente, che è quello di Arzignano (..) e, da quello che ho potuto percepire, questi ha avallato la teoria di Costa, che ha sempre cercato di circoscrivere il problema e ha sempre sostenuto che, a parte un po’ di colesterolo, grossi problemi non ce ne erano”.

Con la delibera della Giunta Regione Veneto n. 1191 del 01.08.2017 è stato poi approvato il progetto di ricerca avente ad oggetto la “Valutazione della biopersistenza e dell’associazione con indicatori dello stato di salute di sostanze fluorurate in addetti alla loro produzionee la nomina di Enzo Merler quale responsabile scientifico per ricerca epidemiologica, sulla mortalità e incidenza di patologie dei dipendenti della Miteni. Ad oggi non vi sono dati certi, lo studio doveva essere pubblicato entro fine dicembre e, dei dipendenti della Miteni si sa ancora poco.

La Rappresentanza Sindacale Unitaria dei lavoratori della Miteni è stata più volte sollecitata ma i portavoce non hanno voluto rilasciare dichiarazioni in merito. A differenza loro c’è invece qualcuno che ha deciso di far sentire la sua voce; Si chiama Stefano de Tomasi, classe 1968, ex dipendente della Miteni, licenziato nel 2010 in seguito ai numerosi giorni di assenza per malattia, a suo giudizio riconducibili all’esposizione ai Pfas prodotti dall’azienda al quale sono state diagnosticate più patologie, dal diabete all’ipertensione arteriosa. “Oggigiorno, a distanza di anni dall’esposizione diretta del reparto produttivo dell’azienda, il mio assistito presenta ancora un tasso elevatissimo di Pfas nel sangue pari a 90.000 nanogrammi per millilitro e ciò conferma il fatto che queste sono sostanze bioaccumulabili estremamente persistenti” ha dichiarato il suo Avvocato, Edoardo Bortolotto.

In merito alla questione, si è espresso anche Alessandro Bratti, nuovo Direttore Generale dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale,il quale ha dichiarato che “la macchina nazionale è stata lenta in merito all’attivazione, così come le amministrazioni compresa quella giudiziaria. Le procure si sono mosse con una certa ritrosia dovuta alla complessità della situazione ma è anche vero che la prima rilevazione dell’Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto risale al 2013, mentre l’attività giudiziaria è iniziata solo nel 2017; è quindi indubbio che si sarebbe potuto intervenire prima. La Regione Veneto ha comunque posto in essere un importante lavoro sulla potabilizzazione, così come hanno fatto i consorzi applicando i carboni attivi per bloccare le concentrazioni di alcune sostanze, ma la bonifica è ben lungi dall’essere risolta”.

Ma come sta procedendo la Regione Veneto per trovare una soluzione al problema? Al quesito ha risposto Gianpaolo Bottacin, Assessore all’Ambiente e Protezione Civile. “Lo scorso settembre è stato richiesto lo stato di emergenza perché questo ci permetterebbe di ottenere dei fondi particolari per procedere con la realizzazione degli acquedotti senza contare che, una gestione commissariata, ci aiuterebbe a velocizzare i tempi di realizzazione. Il fatto che la protezione civile abbia effettuato una serie di documentazioni e sopralluoghi ci fa pensare che sarà confermato. Ovviamente, risulta necessario, velocizzare i processi di approvvigionamento di acqua da fonti pulite, ad esempio da Carmignano di Brenta”. Alla domanda, “Miteni pagherà?” Bottacin risponde senza nascondere una certa amarezza: “il Ministero ha la competenza per valutare il danno ambientale, noi attendiamo risposte dal 2013”. Di chiudere l’azienda però non se ne parla. “Non si può chiudere un’azienda sulla base di ipotesi e, indubbiamente, il fatto che il Ministero non si sia espresso in merito alla valutazione del danno ambientale, non aiuta. In ogni caso sono piuttosto fiducioso sull’imputazione dei costi anche perché, se dovesse essere confermata l’ipotesi che la precedente proprietà era a conoscenza del danno, allora Mitsubishi sarà chiamata a pagare”.

Antonio Nardone, amministratore di Miteni dal 1° gennaio 2016 ha infatti dichiarato più volte che l’attuale proprietà non era a conoscenza di questa presenza sotterranea. Questo è uno dei motivi per i quali Miteni, stando alle ultime dichiarazioni dell’Amministratore delegato, sta avviando un’azione legale verso Mitsubishi la quale non avrebbe fornito all’attuale proprietà la documentazione in merito alla contaminazione dell’acqua. “Per ciò che riguarda invece la tutela dei lavoratori, è bene ribadire che Miteni ha una storia di sessant’anni, e la sua attività è iniziata quando le precauzioni erano meno sofisticate” ha affermato Nardone in un’intervista concessaci ai microfoni di Radio Inblu, l’emittente della Conferenza Episcopale Italiana, che ha aggiunto “l’azienda ha investito moltissimo negli ultimi anni, da quando è venuta a conoscenza dei dati relativi alla presenza dei Pfas nel sangue dei suoi dipendenti”. Resta però un dubbio: se Miteni era al corrente della presenza dei Pfas nel sangue dei dipendenti e, quindi, della loro potenziale pericolosità dal 2000 perché la Regione è stata informata solo nel 2013?

C’è un altro tema caldo che ruota attorno alla questione Pfas: la validità della plasmaferesi, quale trattamento posto in essere in Veneto per pulire il sangue dagli agenti contaminanti, che, da tempo, è diventata oggetto di scontro tra la Regione Veneto e l’Istituto Superiore di Sanità. Quest’ultimo si è dimostrato molto scettico in merito così come ha fatto anche il Dottor Vincenzo Cordiano di Medici per l’Ambiente in quale ha ribadito che “non esistono studi che confermano che tale procedura sia in grado di eliminare i Pfas nel sangue”.

Le proposte sono tante, così come le voci. Una tra queste è quella di Tony Fletcher, Professore Associato in Epidemiologia Ambientale della London School of Hygiene & Tropical Medecine, esperto del caso Dupont, il quale ha esordito con un “Stop exposition”, in occasione di un convegno che si è tenuto lo scorso novembre a Vicenza.

Basterebbe questo per riportare la situazione alla normalità? E se Miteni chiudesse, chi pagherebbe per la bonifica e per i danni alla popolazione? Per saperlo sarà necessario attendere il proseguo di uno dei casi più dibattuti degli ultimi anni sul fronte nazionale. Ricordiamo che la zona rossa, è considerata di fondamentale importanza in quanto rappresenta uno dei distretti conciari più importanti al mondo, dove lavorano circa 11.000 persone. Una qualsiasi azione intrapresa in questa zona, darà seguito a un effetto domino di portata nazionale con un impatto considerevole nelle vite dei lavoratori e sulla salute dei cittadini.

 
 

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