Terzo appuntamento con la prosa al teatro Camploy, giovedì 25 gennaio alle 20.45, con la rassegna “L’Altro Teatro” organizzata dal Comune di Verona in collaborazione con Arteven e con EXP; in programma “L’uomo seme”, che ha debuttato con grandissimo successo il 16 gennaio alla Triennale Teatro dell’Arte di Milano, con protagonista Sonia Bergamasco. In scena anche le Faraualla – quartetto di cantanti attrici – e il musicista performer Rodolfo Rossi.
Lo spettacolo, ideato e diretto dalla stessa Bergamasco, è tratto da “L’uomo seme” di Violette Ailhaud (1836-1925), scritto nel 1919 quando l’autrice aveva ottantatré anni. In un villaggio di montagna dell’Alta Provenza, all’indomani della Grande Guerra, tutti gli uomini sono morti e il paese è abitato solo da donne e bambini. Violette Ailhaud, testimone dei fatti, trova le parole per raccontare di quando, sedicenne, il suo villaggio aveva vissuto un’identica tragedia: tutti gli uomini, dichiaratamente repubblicani e quindi ostili a Luigi Napoleone Bonaparte, erano stati arrestati o deportati. In cima alle montagne quella comunità di sole donne strinse un incredibile patto per la vita: quello di dividersi il primo uomo che fosse apparso all’orizzonte. Sonia Bergamasco prosegue dunque – dopo “Karenina”, “Il ballo”, “Il trentesimo anno” e “Louise e Renée” – la sua esplorazione del femminile attraverso la lingua forte e appassionata di Violette. Inno spiazzante alla vita, “L’uomo seme” è uno spettacolo corale, concepito in forma di ballata, in cui si amalgamano racconto, canto e azione.
«Quando una storia ci colpisce al cuore – dice Sonia Bergamasco – sentiamo il bisogno di raccontarla di nuovo e di rinnovarne il segreto ancora e ancora per ritrovare, in chi guarda e ascolta, conferma del nostro sguardo. Questo è quello che mi è successo quando ho letto L’uomo seme, testimonianza viva di un’esperienza unica e sconvolgente. Di mezzo c’è la guerra che – come scrive Svetlana Aleksievic nel suo ultimo, grande libro di inchiesta – non ha un volto di donna. Il racconto della guerra nasce, per consuetudine, da percezioni prettamente maschili, rese con parole maschili. Nei racconti delle donne non c’è o non c’è quasi mai, ciò che siamo abituati a sentire: gente che ammazza eroicamente altra gente e vince o viene sconfitta. Sembra che il tempo presente – tempo di guerra permanente – sia anche il tempo delle donne soldato, curde, americane, israeliane. E ci obblighi a un mutamento di prospettiva. Resta tuttavia la percezione che per entrare nella lingua della guerra “guerreggiata” le leve femminili abbiano la necessità di mascolinizzarsi. Sono altri, i racconti femminili, e parlano d’altro. La guerra raccontata “al femminile” ha i propri colori, odori, una sua interpretazione dei fatti ed estensione dei sentimenti. È un raccontare dove non ci sono eroi e imprese strabilianti, ma persone reali impegnate nella più disumana delle occupazioni dell’uomo. E a soffrirne non sono solo le persone, ma anche i campi, gli uccelli, gli alberi e ogni cosa che convive con noi su questa terra. Nell’Uomo seme lo sguardo e il corpo delle donne abitano con amore e con forza lo spazio del quotidiano, per raccontare i limiti di un’esperienza disumana. Alla ricerca di parole nuove. Per ritrovare il senso profondo di un vivere comune».