Iuzzolino: “Verona è sempre casa mia”

 
 

Queste le risposte di Mike Iuzzolino, la cui maglia verrà ritirata domenica 9 aprile nella gara di Serie A2 all’Agsm Forum che la Tezenis Verona giocherà contro la De’ Longhi Treviso, nella conferenza stampa delle 17:30 di venerdì 7 aprile al quarto piano del flagship store Tezenis di via Mazzini angolo piazza Erbe, alle numerose domande dei tanti giornalisti dei media nazionali e locali, con la traduzione di Richard Collins, general manager di inlingua Verona.

Che impressione ha ricavato di Verona in questi anni?

«Con la società e soprattutto con Andrea Sordelli sono in continuo contatto. Seguo la squadra regolarmente. La passione forte per Verona non è mai venuta meno».


Quando è tornato dopo l’infortunio i tifosi la accolsero col famoso striscione «The king is back» ed anche stavolta Verona l’ha riabbracciata con tanto entusiasmo. Vede analogie?

«Ora è tutto diverso. La prima volta la mia era una missione per arrivare a vincere il campionato. Questa è una visita più spirituale, adesso torno semplicemente in una città che amo».

Lei ha giocato a Roma con Williams ma i risultati non furono straordinari. C’è rammarico per non aver giocato insieme a Verona?

«Sarebbe stato meglio aver giocato insieme a Verona, ma per ottenere dei risultati non basta mettere insieme dei grandi giocatori. I nomi in campo non bastano. Ci vuole molto di più».

Il ricordo più forte dei suoi anni a Verona?

«Il primo è di essere arrivato giovedì (ride, ndr) e di aver giocato già domenica. Quel che mi ha colpito fin da subito è stato il calore dei tifosi. Ho capito quasi immediatamente di voler far parte di quel progetto. L’apice di quell’esperienza fu naturalmente la vittoria della Coppa Korac con grandi giocatori come Boni, Dalla Vecchia, Keys e tutti gli altri».

Quella squadra avrebbe potuto vincere lo scudetto?

«Questo non lo so».

Lei ha suscitato anche l’entusiasmo dei più giovani. S’è chiesto perché Iuzzolino è stato così amato?

«Non ho mai visto la mia permanenza a Verona esclusivamente come un modo di prendere lo stipendio. Mi sono sentito subito come in una famiglia. Dall’abbraccio dei tifosi alla mia casa, fino al gusto di prendere un caffè con gli amici. Al di là di tutto per me quel che conta è essere una persona buona. Senza quello tutto il resto non conta».

È in forma?

«Sì. Domenica (ride, ndr) gioco anche…»

A parte le battute, cosa prova in questo momento? Il calore di Verona, il ritiro della maglia, i fans che non l’hanno dimenticata…

«Intanto ringrazio la società e tutto lo staff della Scaligera. Sono io che voglio onorare quella maglia, non è di Mike Iuzzolino la maglia. Non sono sicuro di meritarmi tutto questo. Mi sono sempre definito una persona normale che fa un lavoro straordinario. E Verona è stata il punto più alto».

Come fu quella finale di ritorno di Korac con la Stella Rossa? L’ambiente era parecchio tosto a Belgrado…

«Quando vinci è sempre bello. Avevamo perso la prima in casa, dovevamo rimontare quei punti e ci riuscimmo. Fu un momento altissimo della mia carriera ed una grande gioia».

Le tre partite con la Scaligera che non dimenticherà?

«Quella dei 41 punti con Pesaro, una grande vittoria a Verona con la Kinder Bologna. Per la società fu un successo importantissimo. La terza? Ce ne sono tante di partite belle. Compresa quella volta che raggiungemmo la final fuor di Coppa Italia».

I ragazzi di allora provavano i suoi gesti tecnici, due in particolare. Come sono nati l’arcobaleno e quella finta che faceva saltare il suo marcatore e le permetteva di tirare o di andare in penetrazione?

«Per me non era facile giocare nell’Nba. Penetrare a quei livelli significava andare contro Pat Ewing, David Robinson, Shaquille O’Neal. Essendo un giocatore piccolo non era facile farsi spazio. Quei movimenti nacquero proprio da quella necessità. Lo stesso motivo per cui ho imparato a tirare ben oltre dalla linea dei tre punti. Io ero un giocatore fisicamente normale che si misurava in uno sport di gente molto più grande di me. Quindi la mia soluzione era lavoro e poi ancora lavoro. Nella vita non si nasce cestisti».

Con quale compagno a Verona era bello confrontarsi in allenamento?

«Più che ai compagni penso a quanto ci facevano lavorare gli allenatori. Come Marcelletti, come Mazzon, come Melillo. Quel modo duro di allenarsi spingeva molto la competizione».

A casa sua in America conserva qualcosa di Verona?

«Certo che sì. Ho le coppe ma anche una targa che mi diede il Comune di Verona. Più un portachiavi».

Un consiglio ai giovani?

«I giovani oggi sono giocatori diversi da quelli della mia generazione. I ragazzi di oggi non vedono un progetto a lungo termine. Vale per lo sport così come per la normale vita lavorativa. Difficile quindi applicare l’etica che avevo io non quella dei giovani di quest’epoca».

Un posto particolare in cui amava rifugiarsi a Verona?

«Nei primi tempi in cui ero in città non conoscevo nessuno. Così spesso andavo a Castelvecchio, restavo anche ore sul fiume ad ascoltare l’acqua. Dove trovavo molta pace».

Il legame con la Scaligera come si è ricreato?

«Quattro anni fa ho cominciato a comunicare con Andrea Sordelli. Lui ha dato l’anima perché io tornassi a Verona. È stato lui l’ingegnere di questa iniziativa».

Adesso che fa l’allenatore ci dica: pregi e difetti dello Iuzzolino giocatore?

«Io alleno come giocavo. Mettendoci tanto lavoro e tanto amore per questo gioco. Giocare nell’Nba, in Europa così come in Italia è difficile se non hai dentro una grande carica. Come quella che io ho ancora».

 
 

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