Verona ha fatto di Giulietta più di un simbolo: ormai è un brand, ma esplorando dietro le quinte, si scopre che, se c’è un fondamento storico, riguarda solo l’autenticità della famiglia Montecchi, che tuttora vanta una riconoscibile dimora, mentre la casa cosiddetta dei Capuleti è sì, antica, ma mai ad essi appartenuta.
Shakespeare è stato il primo a fare marketing – con licenza per il termine – letterario per Verona, ma la vicenda fu narrata precedentemente da Luigi da Porto (1485-1529), nobile vicentino di madre friulana, che rievocò una sfortunata esperienza amorosa personale – http://www.associazionegiuliettaeromeoinfriuli.it/ – modificandone il quadro, per evitare troppa riconoscibilità (la tutela della privacy non è un’invenzione contemporanea), e ispirandosi al verso dantesco «Vieni a veder Montecchi e Cappelletti» (Purg., VI, 106). Per analogia con le due famiglie nemiche di Orvieto (Monaldi e Filippeschi), nominate nel verso seguente, furono credute tali anche le prime e, per il ricordo dei Montecchi, vennero collocate a Verona; il fatto sarebbe avvenuto sotto Bartolomeo della Scala (1301-‘04), ma non sono attestati storicamente dei Capuleti a Verona, solo Montecchi, o Monticoli, potenti ghibellini della città contro i Sambonifacio, importanti nel contado. Il loro peso andò scemando nel tempo, dopo l’avvento degli Scaligeri. Nel 1325 Cangrande della Scala sventò un complotto ai suoi danni e fece bandire l’orditore, Federico della Scala, e i sostenitori Montecchi, la cui residenza, nella via delle Arche, non è molto lontana da quella cosiddetta di Giulietta; una volta, per andare dall’una all’altra, bastava traversare l’Orto Botanico: è un edificio privato, grande e ben conservato, disposto su tre lati intorno ad un ampio cortile chiuso, verso la strada, da un alto muro a merlatura ghibellina.
Pietro Alighieri (1300-1364) nel 1315 fu esiliato con il padre Dante e i due fratelli Giovanni e Jacopo; terminati gli studi e divenuto giudice, si stabilì a Verona, a palazzo Bevilacqua: già egli aveva affermato che i Cappelletti erano un partito di Cremona, ma la verità si annacquò nei secoli; Antoine Claude Valéry nel suo “Voyages Historiques et Littéraires en Italie, pendant les années 1826-28” citò i luoghi di Giulietta vedendo in Verona il luogo dell’unione ideale tra genio dantesco e shakespeariano.
Nel 1828 Heinrich Heine descrisse la «casa che si cita quale palazzo dei Capuleti, a cagione di un cappello scolpito al di sopra la porta interna. E oggidì è una sordida bettola per i vetturali e i carrettieri, ed un cappello di latta, dipinto in rosso, e tutto bucato, vi è appeso come insegna».
Charles Dickens si ritrovò davanti agli occhi il medesimo, triste spettacolo di decadimento, «un miserabile albergaccio, dove barrocciai chiassosi e carrette infangate disputano il possesso del cortile, ad un branco di oche tutte sporche di fango; e sulla soglia della porta ansava un cagnaccio con un muso orribile, che senza dubbio, se fosse stato sciolto avrebbe afferrato Romeo per i polpacci, prima che questi riuscisse a scavalcare il muro» (“Pictures from Italy”, 1846). Ma «il cappello, l’antico stemma della famiglia, esisteva ancora scolpito sulla pietra al di sopra dell’ingresso del cortile. Le oche, le carrette, i barrocciai ed il cane, a dire il vero, stonavano alquanto con la storia dei due amanti, e certo sarebbe stato meglio trovar la casa vuota e girar per le stanze disabitate, ma il cappello era una gran consolazione».
Cappello, Capuleti… Ma esiste un nesso toponomastico? In età romana, l’attuale via Cappello era un tratto del cardo massimo, che andava ad immettersi nel foro (piazza Erbe); nel sec. X fu eretta la chiesa di San Sebastiano, che diede nome alla strada e alla contrada (San Tomio e San Sebastiano). Gli statuti riordinati del 1450 (governo veneto) la definirono “via Regia verso ponte delle Navi”, con la sua continuazione in via Leoni. Nel 1600, per circa un secolo, fu anche detta “via degli Ebrei”, poiché la casa d’angolo con vicolo Crocioni era stata convertita in sinagoga. Nella revisione del 1822 era nuovamente via S.Sebastiano e dopo il 1871 diventò via Cappello (il toponimo tradizionale di San Sebastiano è rimasto al vicolo adiacente all’ex chiesa) dall’insegna di quell’osteria con stallo (staI del capèl), descritta da Heine e Dickens, esistente fino ai primi anni del Novecento.
L’ultimo proprietario mise la casa all’asta nel 1905, al prezzo di 7.500 lire. “L’Arena” invitò per prima il Comune ad attivarsi per salvare e tutelare il sito, analogamente fecero altri giornali, financo “Le Figaro”. Gioacchino Brognoligo su “Il Giornale d’Italia”, lamentò che si facesse tanto rumore attorno alla casa di una giovinetta mai esistita, (come i suoi studi avevano ampiamente dimostrato), ma il Comune comprò. Vittorio Betteloni auspicava il mantenimento «in condizione più civile e più decorosa che non fosse pur troppo finora la sua, e ciò a più grande soddisfazione delle signore e signorine anglosassoni che riverenti e commosse lo visitano e a maggior incremento di quell’industria del forestiero che è non piccola parte di lucro per il nostro paese» e i primi passi dell’amministrazione furono rivolti in questo senso; nel 1936 il Ministero dell’Educazione nazionale permetteva l’esecuzione di “opere di consolidamento” dell’ala più prossima a via Cappello; tre anni dopo, un altro intervento dava il via alla sistemazione del cortile e tra il 1940 e il 1942 i lavori si estesero all’intero palazzo. Così, «gli umili edifici dalle aperture sette-ottocentesche – nota di Alberto Grimoldi – si trasformarono in fabbricato neogotico in mattoni a vista».
Verso il 1935 Antonio Avena, direttore dei musei cittadini, si inventò il volto medioevale attuale, per creare la giusta atmosfera romantica ed accogliere sospiri turistici, vagheggiando un museo shakespeariano. Il balcone è una lastra gotica, in pietra, recuperata a Castelvecchio, rimaneggiata nelle mensole e riciclata come pensile; la si vede, in originale, in una foto scattata il 25 aprile 1926, che documenta l’inaugurazione del museo del castello scaligero da parte del re Vittorio Emanuele III. Verosimile è la ricostruzione degli spazi interni della “casa Capuleti”: la balaustra che mette in comunicazione, dall’esterno e i diversi corpi della casa. Soffitti, scale, camini ed elementi decorativi furono ideati con grande libertà, alcuni provenienti sempre da Castelvecchio.
Teatro del tragico epilogo per Giulietta e Romeo è la tomba; sempre opera di Avena è la sua marcketizzazione, nel 1937, tra le mura dell’antico ex-convento cappuccino di San Francesco al Corso, appena fuori quelle mura oltre le quali, per l’esiliato Romeo, «non c’è più nulla all’infuori del purgatorio, della tortura e dell’inferno stesso». Il sito risale al XIII secolo, vi riposava un antico sarcofago di marmo rosso, forse risalente all’età romana, privo di coperchio. Anche in questo caso, i secoli hanno trasfigurato l’interpretazione storica: ai suicidi non era concessa la sepoltura in terra consacrata, ma leggenda vuole che nel caso di Giulietta le autorità facessero eccezione, ivi acconsentendo a tumularla. Nel Cinquecento, per porre freno ad un crescente culto profano del luogo, le autorità ecclesiastiche convertirono l’arca in un recipiente per l’acqua di pozzo, senza, tuttavia, risultato. Firme illustri raccontano commoventi visite: Madame de Stael, George Byron («II sarcofago di Giulietta, semplice, aperto, con foglie appassite intorno, nel vasto e desolato giardino di un convento, è triste come fu triste il suo amore. Ho portato via alcuni pezzetti per darli a mia figlia e alle mie nipoti»), Maria Luisa d’Austria, vedova di Napoleone, che pure rimosse alcune schegge di pietra e le fece incastonare in oro, per una parure di collana e orecchini. Poco prima, nel 1820, Giambattista da Persico aveva scritto nella sua “Descrizione di Verona”, a proposito della poco urbana usanza di trafugare souvenir dal luogo: «Incresce purtroppo alle anime di dolce tempera il vedere quell’arca esposta al suo disfacimento, sminuendosi tutto il dì dal levargliene pezzetti per farne gioielli. Cosa che d’altra parte solletica l’amor proprio».
Il già citato Valéry ne raccontò, così come ancora Heine e Dickens: «Entrai da un cancello sgangherato apertomi da una donna con gli occhi vivaci, che faceva il bucato, e guidato da lei percorsi alcuni viottoli lungo i quali crescevano piante verdi e fiori freschissimi di bellissimo effetto. Ad un tratto mi s’indicò una specie d’abbeveratoio, che la donna con gli occhi vivaci, asciugandosi le braccia col fazzoletto, chiamò la tomba di Giulietta la sfortunata. Nonostante la migliore disposizione d’animo del mondo, non potei far di più che credere che la donna con gli occhi vivaci credesse a ciò che mi diceva». Alfred de Musset nel “Voyage pittoresque en Italie” del 1847 scrisse: «Se voi amate Shakespeare non partite da Verona senza gettare un fiore sulla tomba di Giulietta. In questo secolo in cui l’amore non fa più vittime, la deliziosa fanciulla, della quale a morte ha fornito il soggetto del dramma più commovente e appassionato, merita almeno un ricordo. La guerra civile dei patrizi di Verona s’è spenta, come pure la potenza degli Scaligeri; ma gli amori dei due poveri giovani vivono ancora in tutte le memorie, e vi rimarranno finché vivrà la poesia». Il sarcofago rimase trascurato ancora per decenni, dopo il 1848 addirittura completamente lasciato a se stesso, finché non intervenne la Congregazione della Carità, che lo pose al riparo sotto le volte dell’ormai cadente, antico chiostro.
Nel 1898, il Consiglio Comunale si impegnò per restituire decoro e nel 1910 fu inaugurata, lì accanto, l’erma di William Shakespeare. Poi arrivò Avena e una troupe della Metro Goldwin Mayer, alla ricerca di ambientazioni ideali per il kolossal di Cukor “Giulietta e Romeo” (1936), con Norma Shearer e Leslie Howard; consulente dei cineasti americani fu proprio l’immaginoso direttore. Il film, in realtà, non fu affatto girato a Verona, ma fu preso spunto dal soggiorno per creare una città fantastica; il grande successo di pubblico fece sperare ad Avena in un pari riscontro turistico e, per rispecchiare la scenografia della pellicola, che ambientava il doppio suicidio in una cripta, spostò il sarcofago nel sotterraneo del convento, dove oggi si trova.
Il tour sulle tracce degli amanti ha un’appendice a Montecchio Maggiore, dove svettano due maestose rocche scaligere, che Luigi da Porto ammirava dalle finestre di villa Da Porto a Montorso, con immaginabili suggestioni. Oggi sono chiamate castelli di Romeo e Giulietta, si fronteggiano e sono lo scenario di una rievocazione storica ogni primo maggio, nota come “faida”, durante la quale vengono elette le figure di Romeo e Giulietta tra tutti i giovani che si candidano in risposta ad un bando pubblico (www.faida.it).