“BOTTEGA, SCUOLA, ACCADEMIA. La pittura a Verona dal 1570 alla peste del 1630” è il titolo della nuova mostra che apre i battenti oggi, 17 novembre, al museo di Castelvecchio in sala Boggian, visibile fino al 5 maggio 2019. Un’esposizione di 61 capolavori, tra dipinti, disegni, strumenti musicali e documenti, che mette in luce una delle più originali e feconde stagioni dell’arte veronese, in cui spicca la bottega di Domenico e Felice Brusasorzi, divenuta nel tempo una sorta di accademia corporativa, formativa e stimolante.
La mostra è stata presentata dall’assessore alla Cultura Francesca Briani insieme al direttore dei Musei Civici di Verona Francesca Rossi. Presente Alba Di Lieto, curatrice dell’allestimento espositivo con Ketty Bertolaso. “Una pittura coloratissima e ricca di significato – ha sottolineato Briani – che presenta al pubblico uno dei capitoli più vivi della storia dell’arte veronese. Un fermento artistico straordinario, frutto di una tradizione locale che riuscì a mantenere salda la propria identità e autonomia creativa. Arte e storia si incontrano quindi per raccontare, attraverso le opere esposte, un momento di grande vivacità artistica del nostro territorio. Un’intensità produttiva che, tra il ‘500 e il ‘600, ha portato alla realizzazione di numerosi capolavori. Un’ampia e ricca esposizione resa possibile grazie alle importanti collaborazioni avviate con le principali collezioni civiche cittadine”.
L’istituzione culturale più importante nella Verona del Cinque e Seicento è l’Accademia Filarmonica, la più antica d’Italia e una delle più prestigiose, fondata nel maggio 1543 in casa del nobile Pellegrino Ridolfi da un gruppo di giovani aristocratici appassionati di musica e desiderosi di elevare il proprio livello culturale. Tra di loro anche due pittori, Domenico Brusasorzi e il poco noto Raffaele Torlioni, che in considerazione delle precarie condizioni economiche saranno esentati qualche anno dopo dal pagamento delle dadie, la tassa mensile dovuta da tutti gli affiliati.
Oltre a essere un buon musico, un eccellente suonatore di liuto, secondo lo storico Carlo Ridolfi (1648), Brusasorzi dovette ricoprire il ruolo di pittore ufficiale del sodalizio, eseguendo diverse opere. Di questo patrimonio nulla è noto ai nostri giorni, se non alcune copie più tarde, per esempio il doppio “Ritratto di Domenico e del figlio Felice”, probabilmente un pastiche settecentesco che riunisce in un’unica immagine gli autoritratti conservati un tempo in Accademia. Alla sua morte prematura, nel 1567, subentrò tra i membri il figlio Felice, che riannodò i legami del genitore, in particolare con il fiorentino Bernardo Canigiani, in casa del quale fu ospite da giovane, secondo lo storico Giorgio Vasari (1568), per studiarvi le opere dei maestri toscani. A Firenze Felice tornerà ancora nel 1597, insieme all’allievo Sante Creara, inviato dal conte Agostino Giusti a copiare i ritratti delle collezioni medicee.
Anche Felice Brusasorzi fu pittore ufficiale dell’Accademia: tra i suoi compiti, quello di dipingere le imprese di tutti gli iscritti (purtroppo perdute) e i loro ritratti; si conosce il “Ritratto di Bartolomeo Carteri”, musico di professione, virtuoso di cornetto, liuto e viola da gamba, membro dell’istituzione dal 1564.
Felice – che aveva per impresa un alce con il motto “In miseria Fœlix” – era incaricato inoltre di realizzare le scenografie per gli spettacoli allestiti dagli accademici, ad esempio per la favola pastorale “Aminta” di Torquato Tasso, rappresentata nel giardino Giusti nel 1581 sotto l’egida del conte Agostino. In quegli anni la Filarmonica era ospitata infatti in palazzo Giusti, dove Agostino, come poi il figlio Gian Giacomo, avviarono la formazione di un’importante raccolta di antichità (in particolare epigrafi romane) che venivano collocate nello splendido ‘museo-giardino’ ispirato ai grandi palazzi romani.
Felice Brusasorzi muore nel 1605. Carlo Ridolfi tramanda la notizia che fosse avvelenato dalla giovane moglie in combutta con l’amante, ma non ci sono prove documentarie del fatto. Gli accademici ne piansero le virtù professionali e umane,
Le botteghe veronesi – Nella seconda metà del Cinquecento l’ambiente artistico veronese è dominato da due grandi botteghe: quella di Paolo Farinati e quella di Felice Brusasorzi. La prima era uno studio di carattere familiare nella più consolidata tradizione locale, in cui il maestro si avvaleva dell’apporto dei due figli Orazio e Giambattista, che lavoravano su disegni del padre, e di pochi e fidati collaboratori esterni, producendo una vastissima serie di manufatti, da grandi cicli decorativi per palazzi cittadini e ville suburbane all’indoratura di figurette di cartapesta.
La bottega di Felice, pur avendo anch’essa un’origine familiare, si configura invece, col tempo, come una vera accademia, sull’esempio dell’Accademia del disegno di Firenze, città con la quale sia l’artista, che vi soggiornò a più riprese, sia Agostino Giusti, il suo principale committente, furono in documentato e diuturno rapporto.
In questa scuola semipubblica si formarono quasi tutti i principali pittori della generazione successiva, che non sono più necessariamente dei figli d’arte, com’era sempre avvenuto, ma figli di artigiani (il padre di Turchi era un armaiolo, quello di Ottino un fabbricante di stoviglie) o di professionisti (il padre di Bassetti era un avvocato), quando non rampolli illegittimi di famiglie nobili, come Carlo Ridolfi.
Tra gli artisti veronesi attivi nella seconda metà del secolo si segnala Bernardino India, formato inizialmente come frescante, specialista in grottesche, collaboratore dei maggiori architetti veneti del Cinquecento: Michele Sanmicheli in palazzo Canossa a Verona, Andrea Palladio in palazzo Thiene a Vicenza. Nella seconda parte della sua carriera si concentra maggiormente sulla pittura da cavalletto. In mostra la sua “Santa Giustina” è posta a confronto con la pala di analogo soggetto di Felice Brusasorzi. La festa della santa cade il 7 ottobre, giorno della vittoria di Lepanto, circostanza che contribuì a diffonderne il culto e l’iconografia.
Della bottega veneziana di Paolo Veronese, trasferitosi nella capitale fin dal 1555 circa, si vedono una “Veronica” attribuita a Carletto Caliari, il figlio talentuoso di Paolo e una pala di Francesco Montemezzano, veronese di nascita ma anch’egli operoso prevalentemente lontano dalla città natale. A completare il panorama lagunare sono esposti un “Ecce homo” di Domenico Tintoretto e “La nascita di Maria” di Jacopo Palma il Giovane. Verona era gelosa della propria autonomia artistica, in particolare nei confronti della Dominante. Carlo Ridolfi rivela che Palma, con le sue tele destinate alla chiesa dei Santi Nazaro e Celso, “non colpì nel genio de’ Veronesi non avvezzi alle maniere di Venetia”. Ma gli artisti locali ne furono ammaliati, dapprima lo stesso Felice Brusasorzi, più tardi Alessandro Turchi e soprattutto Marcantonio Bassetti.
Il disegno – Gli artisti veronesi del Cinque e Seicento dedicarono una parte consistente delle loro energie all’attività grafica, considerando che molti di loro vantavano competenze anche nel campo dell’architettura. Se la grafica di Felice Brusasorzi, di cui conosciamo una manciata di fogli, non è ancora ben definita, Paolo Farinati, al contrario, si rivela un disegnatore instancabile e di altissima qualità, come riconobbero gli stessi contemporanei, da Giorgio Vasari, che ne collezionò le opere, ad Annibale Carracci. Carlo Ridolfi, che fu a Verona nel 1628 e vide quanto della produzione grafica di Farinati restava presso il figlio Cristoforo, rimase ammirato per l’inesauribile fantasia creativa dell’artista: “i disegni da lui fatti furono per così dire infiniti, in carte tinte tocchi d’acquarelli e lumi di biacca, che sarebbe impossibile il raccontarne le inventioni”.
Farinati, oltre che pittore e incisore, fu anche architetto: a lui si può riferire il progetto della chiesa parrocchiale di Padenghe, sul lago di Garda; in mostra sono presentati due fogli legati a questa produzione. Il primo, disegnato su entrambi i lati, raffigura alcune vedute parziali dell’interno della chiesa di San Giorgio Maggiore a Venezia, progettata da Andrea Palladio nel 1565, ma mostra anche uno schizzo del Caino che uccide Abele di Jacopo Tintoretto, allora nella Scuola della Santissima Trinità, oggi alle Gallerie dell’Accademia, testimonianza di uno dei (probabilmente) molti soggiorni di studio veneziani dell’autore. Il secondo è un progetto del 1602 per il portale d’ingresso della chiesa di San Giorgio in Braida a Verona. La datazione tarda del foglio ha suggerito recentemente l’ipotesi di attribuire all’anziano artista, ormai quasi ottuagenario, la paternità della facciata dell’edificio.
A Venezia per motivi di studio fu anche Marcantonio Bassetti, tra il 1605 e il 1615. “L’Incoronazione della Vergine in Paradiso” è una copia della pala tarda di Paolo Veronese; non è escluso che Bassetti realizzasse simili copie non solo con finalità didattiche, come appunti stenografici tratti dalle opere dei grandi maestri del passato, soprattutto sotto l’aspetto compositivo, ma anche per farne commercio presso i collezionisti.
Tra i maggiori allievi di Felice Brusasorzi, il più anziano è Sante Creara (nato nel 1571), circostanza che gli garantì per qualche tempo un ruolo di primo piano nella bottega. Alla morte di Felice, nel 1605, l’incarico di completare i dipinti fu affidato non a Creara, ma a Pasquale Ottino e ad Alessandro Turchi detto l’Orbetto, molto più aperti alle novità contemporanee. Ottino è forse il primo dei Veronesi a recarsi a Roma, nel 1608-1609. Da fonti varie – Felice, Tintoretto e Palma, Caravaggio, gli emiliani attivi a Roma all’inizio del secolo (Annibale Carracci, Reni, Guercino, Domenichino, Lanfranco) – Turchi seppe ricavare un linguaggio ammantato di nobile retorica espressiva, dove si fondono Natura e Idea, un coltissimo classicismo compositivo e una resa morbidamente naturalistica dei tessuti e degli incarnati, che gli ha garantito la fortuna incondizionata presso i contemporanei e i posteri.
Marcantonio Bassetti perfeziona la sua formazione a Venezia. A Roma conosce Caravaggio, l’altro suo grande maestro ideale. Ma nella città dei papi si sentiva isolato e incompreso, “perché il mio genio non si conforma troppo a questi di Roma”, come scrive in una lettera a Palma. Bassetti, per libera scelta morale, volle tenersi lontano dall’ambiente dell’Accademia Filarmonica e delle aristocratiche collezioni cittadine, dove avevano prosperato Brusasorzi e Turchi, finendo per lavorare per umili congregazioni cittadine (le Dimesse) e sperdute pievi del contado (Alcenago, Povegliano, Moruri).
Echi caravaggeschi – Nel secondo e terzo decennio del Seicento anche a Verona si fa sentire una fugace quanto chiara eco dell’arte potente di Caravaggio, destinata a spegnersi del tutto dopo il 1630, non prima tuttavia di aver prodotto, soprattutto nel campo della pittura sacra e del ritratto, opere importanti e originali nel panorama pittorico locale. Il primo, certo il più coerente, tra i caravaggisti veronesi, fu Pietro Bernardi. Bartolomeo Dal Pozzo (1718) afferma che morì nel 1623, quando doveva essere ancora molto giovane. Ma che sia stato a Roma (forse con Ottino nel 1608-1609) non può essere messo in dubbio. La “Sacra famiglia con i santi Gioacchino ed Elisabetta”, un tempo su un altare della chiesa dei Minori osservanti di Isola Della Scala e oggi esposta a Castelvecchio, è senz’altro il testo più importante del caravaggismo veronese. Anche la “Sacra famiglia con i santi Giovannino ed Elisabetta” appartiene allo stesso clima culturale.
Anche per Bassetti la conoscenza di Caravaggio durante il suo soggiorno romano (circa 1615-1620) fu fondamentale per la sua pittura successiva, fondendosi in modo originale con le precedenti esperienze venete (Palma il Giovane, Bassano). Turchi e Ottino furono profondamente toccati dal naturalismo caravaggesco, ma ben presto entrambi i pittori ne riassorbirono la componente più eversiva in un linguaggio aulico e solenne, dove a prevalere saranno ben presto un classicismo e un patetismo di matrice emiliana verso cui, per natura e per formazione, essi erano portati.
Soggetti religiosi – In pieno periodo di Controriforma, una delle principali occupazioni dei pittori, era la realizzazione di pale d’altare e altri dipinti di soggetto religioso destinati ad arredare edifici di culto sia di nuova costruzione o sottoposti a un radicale rinnovamento. Felice Brusasorzi e Paolo Farinati furono i più apprezzati in questa delicata mansione, che comunque a Verona, diversamente dalla Milano di Carlo Borromeo o dalla Bologna di Gabriele Paleotti, lasciò ai pittori un rassicurante margine di libertà espressiva.
Il percorso espositivo si conclude con un dipinto esemplare di Claudio Ridolfi, eseguito attorno al 1630, rappresentativo dell’unica alternativa realmente significativa che a Verona poteva distinguersi dalla scuola di Felice, ormai a ridosso del tragico avvento della peste.